Il dolore che si fa bellezza. Il gesto che si fa poesia. La sofferenza che si fa arte. La disabilità portata con un pudore sfrontato, carico di malinconia e di gioia, di ferite rimarginate, di fatiche sconosciute, a tratti solo intuite, e di note ancora da suonare, ancora da comporre, ancora da affidare ad altri: i musicisti da dirigere con una bacchetta che si faceva ferma e decisa, nella fragile delicatezza di un movimento che è sempre diverso anche quando lo spartito è lo stesso. Rigore, sacrificio, disciplina.
Al padre, nella Torino operaia travolta dal terrorismo, dissero: «I figli degli operai fanno gli operai». E lì è iniziata la sua lotta: la distruzione degli ascensori sociali che sono sempre bloccati, in questo Paese; l’annientamento dei tanti stereotipi che gli hanno cucito addosso. Diceva: «Io resto a difendere il mio modo di fare musica, che è un modo sacrificale, di impegno assoluto. Perché non basta – aggiungeva schiaffeggiando la retorica – metterci il cuore. Serve impegno, fatica».
Poteva fare il personaggio, in quest’Italia sempre in cerca di idoli. Invece è rimasto se stesso. Fino alla fine. Facendo vivere la musica. Facendola sua. Lasciandocela in dono. Diventando – grazie anche a quel Sanremo che lo fece scoprire al grande pubblico – uno di famiglia. Anche se in pochi possono dire d’averlo conosciuto davvero, Ezio Bosso, lo straordinario artista che è morto a 48 anni – dannatamente presto -, sconfitto da uno dei tanti mali con i quali aveva combattuto.